Lettera di G.Cagliari - 20 luglio 1993
Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco,
Ghiti:
sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho
deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna.
La criminilizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi Magistrati, anche a
Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e
al rancore dell'opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei Giudici ha fatto il resto.
Ci trattano veramente come non-persone, come cani
ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente
trattenuto.
[Nota del WebMaster (N.B.: Il PM che inquisiva Gabriele Cagliari si chiama Dott. De Pasquale, e quando Cagliari si suicidò era in vacanza in Calabria; pochi giorni prima di partire per le vacanze aveva promesso a Cagliari di farlo trasferire agli arresti domiciliari, cosa che cambiò - si rimangiò - proprio l'ultimo giorno prima di partire e prima del detto suicidio)]
Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere
rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto
non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa
essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta d'identità
e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare.
Per di più ho 67 anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale
gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti. Ma, come
sapete, i motivi di questo infierire sono ben altri e ci vengono anche
ripetutamente detti dagli stessi Magistrati, se pure con il divieto assoluto di
essere messi a verbale, come invece si dovrebbe regolarmente fare.
L'obbiettivo di questi Magistrati, quelli della Procura di Milano in modo particolare, è
quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e
irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro "ambiente".
Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi della opinione pubblica per
il solo fatto di essere inquisito o, peggio, essere stato arrestato, deve
adottare un atteggiamento di "collaborazione" che consiste in tradimenti e
delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè
quello che loro stessi chiamano un "infame".
Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, anche in quello
che loro chiamano il nostro "ambiente". La vita, dicevo, perché il suo ambiente,
per ognuno, è la vita: la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e
internazionali, gli interessi sui quali loro e i loro complici intendono mettere
le mani.
Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere
interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell'Amministrazione Pubblica o
parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni delle aziende private, come si fa a
volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati
e perseguitati, proprio come sta facendo l'altro complice infame della
Magistratura che è il sistema carcerario.
La convinzione che mi sono fatto è che i Magistrati considerano il carcere nient'altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuffire,
indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente.
Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima.
Qui dentro ciascuno è
abbandonato a se stesso, nell'ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti,
custodito nell'inattività e nell'ignavia; la gente impigrisce, si degrada e si
dispera diventando inevitabilmente un ulteriore moltiplicatore di malavita.
Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni Procuratore può prelevarci per
fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello
che aveva fatto un'analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima.
Anche tra loro c'è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato,
con la differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente.
Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia.
Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo
irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime
della totale asocialità. Io non ci voglio essere.
Hanno distrutto la dignità
dell'intera categoria degli avvocati penalisti ormai incapaci di dibattere o di
reagire alle continue violazioni del nostro fondamentale diritto di essere
inquisiti, e giudicati poi, in accordo con le leggi della Repubblica.
Non sono soltanto gli avvocati, i sacerdoti laici della società, a perdere la guerra; ma è
l'intera nazione che ne soffrirà le conseguenze per molto tempo a venire. Già
oggi i processi, e non solo a Milano, sono farse tragiche, allucinanti, con pene
smisurate comminate da Giudici che a malapena conoscono il caso, sonnecchiano o
addirittura dormono durante le udienze per poi decidere in cinque minuti di
Camera di Consiglio.
Non parliamo poi dei tribunali della libertà, asserviti
anche loro ai Pubblici Ministeri, né dei tribunali di sorveglianza che
infieriscono sui detenuti condannati con il cinismo dei peggiori burocrati e ne
calpestano continuamente i diritti.
L'accelerazione dei processi, invocata e
favorita dal Ministro Conso, non è altro che la sostanziale istituzionalizzazione
dei tribunali speciali del regime di polizia prossimo venturo. Quei pochi di noi
caduti nelle mani di questa "giustizia" rischiano di essere i capri espiatori
della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione.
Io sono convinto di dover rifiutare questo ruolo. È una decisione che prendo in tutta lucidità e
coscienza, con la certezza di fare una cosa giusta.
La responsabilità per colpe
che posso avere commesso sono esclusivamente mie e mie sono le conseguenze.
Esiste certamente il pericolo che altri possano attribuirmi colpe non mie quando
non potrò più difendermi.
Affidatevi alla mia coscienza di questo momento di
verità totale per difendere e conservare al mio nome la dignità che gli spetta.
Sento di essere stato prima di tutto un marito e un padre di famiglia, poi un
lavoratore impegnato e onesto che ha cercato di portare un po' più avanti il
nostro nome e che, per la sua piccolissima parte, ha contribuito a portare più in
alto questo paese nella considerazione del mondo.
Non lasciamo sporcare questa
immagine da nessuna "mano pulita".
Questo vi chiedo, nel chiedere il vostro
perdono per questo addio con il quale vi lascio per sempre.
Non ho molto altro da dirvi poiché in questi lunghissimi mesi di lontananza ci siamo parlati con tante
lettere, ci siamo tenuti vicini.
Salvo che a Bruna, alla quale devo tutto. Vorrei
parlarti Bruna, all'infinito, per tutte le ore e i giorni che ho taciuto, preso
da questi problemi inesistenti che alla fine mi hanno fatto arrivare qui. Ma in
questo tragico momento cosa ti posso dire, Bruna, anima dell'anima mia, unico
grandissimo amore, che lascio con un impagabile debito di assiduità, di incontri
sempre rimandati, fino a questi ultimi giorni che avevamo pattuito essere
migliaia e migliaia da passare sempre insieme, io e te, in ogni posto, e che
invece qui sto riducendo a un solo sospiro?
Concludo una vita vissuta di corsa,
in affanno, rimandando continuamente le cose veramente importanti, la vita vera,
per farne altre, lontane come miraggi e, alla fine, inutili.
Anche su questo,
soprattutto su questo, ho riflettuto a lungo, concludendo che solo così avremo
finalmente pace. Ho la certezza che la tua grande forza d'animo, i nostri figli,
il nostro nipotino, ti aiuteranno a vivere con serenità e a ricordarmi, perdonato
da voi per questo brusco addio.
Non riesco a dirti altro: il pensiero di non
vederti più, il rimorso di avere distrutto i nostri anni più sereni, come
dovevano essere i nostri futuri, mi chiude la gola.
Penso ai nostri ragazzi, la
nostra parte più bella, e penso con serenità al loro futuro. Mi sembra che
abbiano una strada tracciata davanti a sé. Sarà una strada difficile, in salita,
come sono tutte le cose di questo mondo: dure e piene di ostacoli. Sono certo che
ciascuno l'affronterà con impegno e con grande serenità come ha già fatto Stefano
e come sta facendo Silvano.
Si dovranno aiutare l'un l'altro come spero che già
stiano facendo, secondo quanto abbiamo discusso più volte in questi ultimi mesi,
scrivendoci lettere affettuose.
Stefano resta con un peso più grave sul cuore per
essere improvvisamente rimasto privato della nostra carissima Mariarosa. Al
dolcissimo Francesco, piccolino senza mamma, daremo tutto il calore del nostro
affetto e voi gli darete anche il mio, quella parte serena che vi lascio per lui.
Le mie sorelle, una più brava dell'altra, in una sequenza senza fine, con le loro
bravissime figliole, con Giulio e Claudio, sono le altre persone care che lascio
con tanta tristezza.
Carissime Giuliana e Lella, a questo punto cruciale della
mia vita non ho saputo fare altro, non ho trovato altra soluzione.
Ricordo Sergio e la sua famiglia con tanto affetto, ricordo i miei cugini di Guastalla, i
Cavazzani e i loro figli. Da tutti ho avuto qualcosa di valore, qualcosa di
importante, come l'affetto, la simpatia, l'amicizia.
A tutti lascio il ricordo di
me che vorrei non fosse quello di una scheggia che improvvisamente sparisce senza
una ragione, come se fosse impazzita. Non è così, questo è un addio al quale ho
pensato e ripensato con lucidità, chiarezza e determinazione.
Non ho alternative. Desidero essere cremato e che Bruna, la mia compagna di ogni momento triste o
felice, conservi le ceneri fino alla morte.
Dopo di che siano sparse in qualunque
mare. Addio mia dolcissima sposa e compagna, Bruna, addio per sempre.
Addio Stefano, Silvano, Francesco; addio Ghiti, Lella, Giuliana, addio.
Addio a tutti. Miei carissimi, vi abbraccio tutti insieme per l'ultima volta.
Il vostro sposo, papà, nonno, fratello.
Gabriele
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Ovvio che si sta scherzando!!!
